LA PARABOLA DEL PADRE CHE AMA / 2

LA PARABOLA DEL PADRE CHE AMA / 2

“L’amore è il cuore della Vita  Trinitaria.
Attorno a  questo  amore  misericordioso  gravita  tutto  ciò che  è creato  ed è stato  riscattato.

L’amore è l’effusione  prodiga  di  Dio  stesso  nel  seno  della Vita Trinitaria” (Don Carlo).

IN CAMMINO

Cerca la tua strada
senza barare
senza frodi
senza sconti sul tragitto.
Non temere il non senso.
L’assurdo stesso
ti parlerà
del fondamento segreto
del reale.
Ogni contraddizione
può ricongiungerti
al sentiero segreto
dove ogni essere
ha la sua voce
e l’Essere Eterno
sussurra
nel fondale di ogni cosa.
Non aver paura di ascoltare
fino in fondo
ciò che tace
gridando il dolore
o il nulla.
Non lasciarti distrarre
dal rumore di voci.
Guarda dentro le cose.
Nulla, nulla
passerà
prima di averti sussurrato
senza parole
il suo segreto.
Vivi
senza barriere…
…cerca la tua strada
in silenzio
senza clamore
di approvazioni fatue.

Il dipinto “Il figlio prodigo” di Rembrandt.
Racconta il sacerdote Henri Nouwen ( 2a parte)
 
Dopo aver visto per la prima volta  il Figlio prodigo, il mio viaggio spirituale è stato segna­to da tre fasi  che mi hanno aiutato a individuare la struttura della mia storia.
La prima fase è stata la mia esperienza di essere il figlio più giovane. I lunghi anni di insegnamento uni­versitario e il mio intenso coinvolgimento nelle que­stioni del Sud e del Centro America mi avevano la­sciato la sensazione di essermi perduto. Avevo girato in lungo e in largo, incontrato persone di condizioni di vita e di convinzioni del tutto diverse, ed ero entra­to a far parte di molti movimenti. Alla fine ho però avvertito di essere senza casa e molto stanco. Quando ho visto la tenerezza con cui il padre toccava le spalle del figlio più giovane e lo teneva vicino al cuore, ho sentito profondamente di essere quel figlio perduto e ho desiderato tornare, come lui, per essere abbraccia­to in quel modo. Per un lungo periodo ho pensato a me stesso come al figlio prodigo sulla via di casa, pre­gustando il momento di essere accolto a braccia aperte da mio Padre.
Poi, in modo del tutto inatteso, qualcosa nella mia prospettiva è mutata. Dopo l’anno trascorso in Fran­cia e la visita all’Ermitage di San Pietroburgo, i senti­menti di disperazione che mi avevano fatto identifica­re così fortemente con il figlio più giovane si sono co­me spostati sullo sfondo della mia coscienza. Mi  sentivo più fiducioso di prima.
La seconda fase nel mio viaggio spirituale ebbe ini­zio una sera mentre parlavo del dipinto di Rembrandt con Bart Gavigan, un amico inglese che nell’ultimo anno aveva avuto modo di conoscermi molto bene. Mentre spiegavo a Bart quanto fossi riuscito a identificarmi con il figlio più giovane, lui mi guardò intensamente e mi disse: «Mi chiedo invece se tu non sia piuttosto come il figlio maggiore». Con queste parole aveva aperto un nuovo orizzonte dentro di me.
Francamente, non avevo mai pensato a me stesso come al figlio maggiore, ma una volta che Bart mi eb­be messo di fronte a questa possibilità, una folla di pensieri irruppe nella mia mente. Per il semplice fatto che sono per davvero il figlio maggiore nella mia fami­glia, mi sono subito reso conto di quanto la mia vita fosse stata ligia al dovere. A sei anni già volevo diven­tare prete e non ho mai cambiato idea. Sono nato, so­no stato battezzato, cresimato e ordinato nella mede­sima chiesa e sono sempre stato obbediente ai miei ge­nitori, insegnanti, vescovi e al mio Dio. Non sono mai scappato di casa, non ho mai sprecato il mio tempo e il mio denaro nella ricerca del piacere e non mi sono mai perduto in «dissipazioni e ubriachezze». Per tut­ta la vita sono stato piuttosto responsabile, tradiziona­lista e legato alla famiglia. Ma, con tutto ciò, posso in realtà essermi perduto proprio come il figlio più gio­vane. Improvvisamente mi sono visto in modo del tut­to nuovo. Ho visto la mia  gelosia, la mia rabbia, la mia permalosità, la mia caparbietà, il mio astio e so­prattutto la sottile convinzione di essere sempre nel giusto. Ho visto quanto mi lamentavo e quanto i  miei  pensieri e  sentimenti  fossero rosi dal risentimento. Per un certo periodo mi è stato impossibile capire come avessi potuto pensare a me stesso come al figlio più giovane. Ero di certo il figlio maggiore, ma perduto come il fratello minore, anche se ero rimasto a casa tutta la vita.
Avevo lavorato moltissimo nell’azienda agricola di mio padre, ma non avevo mai gustato pienamente la gioia di essere a casa. Invece di essere grato per tutti i privilegi  che avevo ricevuto, ero diventato una per­sona astiosa: geloso dei miei fratelli e sorelle più giova­ni che avevano affrontato tanti rischi ed erano sempre accolti calorosamente.
Altro doveva accadere. Nei mesi successivi alla cele­brazione del trentesimo anniversario della mia ordina­zione sacerdotale entrai gradualmente in notti interio­ri molto oscure e cominciai a sperimentare un immen­sa angoscia spirituale. Giunsi al punto di non sentirmi più sicuro nemmeno nella mia comunità e dovetti par­tire per cercare un qualche aiuto alla mia lotta e impe­gnarmi direttamente alla mia guarigione interiore. I po­chi libri che potei portare con me erano tutti su Rem­brandt e sulla parabola del figlio prodigo. Mentre vi­vevo in un luogo piuttosto isolato, lontano dagli amici e dalla comunità, trovai grande conforto nel leggere la tormentata vita del grande pittore olandese e nel conoscere meglio l’itinerario straziante che, alla fine, lo rese capace di dipingere questa opera sublime.
Per ore ho guardato gli splendidi disegni e i dipinti da lui creati in mezzo a tutte le sue ricadute, disillu­sioni e afflizioni e sono giunto a comprendere come dal suo pennello fosse emersa la figura di un uomo an­ziano quasi cieco che cinge il figlio in un gesto di pietà che tutto perdona. Un uomo deve essere morto molte volte e aver pianto molte lacrime per aver  dipinto un ritratto di Dio in tale umiltà.
È stato durante questo periodo di immensa soffe­renza interiore che un’amica pronunciò la parola che avevo più bisogno di sentire aprendo così la terza fase del mio viaggio spirituale. Sue Mosteller, che stava con la comunità di Daybreak dai primi anni Settanta e aveva svolto  un ruolo importante nel condurmi ad essa, mi aveva dato un sostegno indispensabile quando le cose erano diventate difficili, e mi aveva incoraggiato a lot­tare affrontando tutto ciò che era necessario soffrire per raggiungere la vera libertà interiore. Quando ven­ne a farmi visita nel mio «ermitage» e parlò con me del Figlio prodigo, disse: «Che tu sia il figlio più giova­ne o il figlio maggiore, ti devi rendere conto di essere chiamato a diventare il padre».
Le sue parole mi colpirono come un fulmine perché, dopo tutti gli anni che ero vissuto con il dipinto e ave­vo guardato l’uomo anziano stringere il proprio figlio, non mi era mai passato per la mente che fosse il padre ad esprimere più pienamente la mia vocazione nella vita.
Sue non mi lasciò molte possibilità di protestare: «Hai cercato amici per tutta la vita; hai desiderato ardente­mente affetto da quando ti conosco; ti sei interessato a migliaia dì cose; hai chiesto attenzione, apprezzamento e affermazione a destra e a sinistra. È venuto il tempo di affermare la tua vera vocazione – essere un padre che può accogliere con calore i propri figli senza far loro alcuna domanda e senza volere niente in cambio. Guarda il padre nel tuo dipinto e saprai chi sei chia­mato a essere. Noi, a Daybreak, e la maggior parte delle persone intorno a te, non abbiamo bisogno di te come un buon amico e nemmeno come un fratello ge­neroso. Abbiamo bisogno di te come un padre dispo­sto a rivendicare per sé l’autorità della vera misericor­dia».
Guardando il vecchio con la  barba nel suo ampio mantello rosso, ho opposto profonda resistenza al pen­siero di vivere personalmente quel ruolo. Mi sono sen­tito pronto a identificarmi con il figlio più giovane, scialacquatore, o con il figlio maggiore, roso dal risen­timento, ma l’idea di essere come quell’uomo anziano che non aveva niente da perdere perché aveva perduto tutto, e aveva soltanto da dare, mi ha quasi terrorizza­to. Eppure, Rembrandt morì a sessantatré anni ed io sono molto più vicino a quell’età che a quella di cia­scuno dei due figli. Rembrandt era stato pronto a met­tersi al posto del padre; perché io no?
L’anno e mezzo che seguì la provocazione di Sue Mosteller è stato il periodo in cui ho cominciato a ri­vendicare la mia paternità spirituale. E stata una lotta lenta e ardua e qualche volta sento ancora il desiderio di rimanere figlio e di non crescere mai. Ma ho gusta­to anche la gioia immensa di vedere i figli tornare a casa e posare le mani su di loro in un gesto di perdono e benedizione. Sono giunto a sperimentare, seppure in piccola parte, ciò che significa essere un padre che non fa domande e vuole solo accogliere con calore i propri figli.
In real­tà, io sono il figlio minore, sono il figlio maggiore e sto per diventare il padre. E per voi che vorrete fare con me questo viaggio spirituale, spero e prego che pos­siate scoprire dentro voi stessi non solo il figlio perdu­to di Dio, ma anche il padre e la madre compassione­voli qual è Dio.
 
 
In un lungo spazio di silenzio guardiamoci dentro, guardiamo la nostra vita per scoprire anche in noi le tre figure: il figlio minore, il maggiore e il padre. Cerchiamo di appuntare le nostre riflessioni.

Come i due figli della parabola, Signore, abbiamo falsato il tuo volto: abbi pietà di noi, Signore.

Ecco, di pochi palmi hai fatto i miei giorni,
è un nulla per te la durata della mia vita.
Sì, è solo un soffio ogni uomo che vive.

(Salmo 39,6)

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